martedì 24 febbraio 2009

Il Partito democratico crescerà, vincerà la sua sfida

Chiunque di noi abbia pensato che il Partito democratico fosse l’idea giusta per il nostro Paese, non può non sentire il rimpianto perché questa idea non è cominciata quando doveva cominciare.

E doveva cominciare dopo la vittoria alle elezioni del 1996, doveva iniziare quando con Romano Prodi fu avviata e messa in campo l’idea di una sintesi e di un incontro dei diversi riformismi del nostro Paese, e cioè l’idea che coloro i quali erano stati culturalmente e politicamente diversi e talvolta separati, potessero ritrovarsi, unirsi e far vivere un linguaggio nuovo.

L’obiettivo di quella stagione politica, che fu una stagione entusiasmante, la stagione dell’Ulivo, era quello di cambiare radicalmente il nostro Paese. E riandando con la memoria e con l’esperienza alla storia di questi anni, posso dire che quel governo, il governo di Romano Prodi, il governo del quale facevano parte due persone che successivamente sarebbero divenute Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, quel governo aveva cominciato a cambiare radicalmente il nostro Paese.

Se l’esperienza di quel governo fosse continuata, se l’Ulivo fosse diventato un partito allora – e l’Ulivo era politicamente ciò che è oggi il Partito democratico, con in più i Verdi che allora avevano una posizione assolutamente riformista – se tutto questo fosse accaduto, il corso della storia italiana sarebbe stato diverso.

Oggi il Pd è nato, ed è nato con quello straordinario episodio di democrazia che sono state le elezioni primarie del 14 ottobre.

Quando è nato il Pd, almeno per me che almeno da dieci anni speravo questo, è stata la realizzazione di un sogno politico.

Uso le parole che ho usato a Spello un anno fa, parlando di fronte a quel meraviglioso scenario di bellezza italiana: è nato un partito con l’ambizione non di cambiare un governo, ma di cambiare l’Italia, perché la radice dei nostri percorsi, delle nostre storie, della nostra identità, deve essere animata da questa ambizione, l’ambizione di cambiare questo Paese.

Quando durante la campagna elettorale concludevamo cantando l’inno d’Italia, non era solo un atto di omaggio retorico. Al contrario, il senso era: il Partito democratico è il partito del destino dell’Italia. Non posso dire il partito dell’Italia perché sarebbe una contraddizione con quello che penso, ma un partito che dal suo simbolo e dai colori del suo simbolo, fino alle sue scelte, assume su di sé il destino di un Paese che prima o poi dovrà conoscere la stagione di un grande cambiamento: quello che all’Italia è mancato dal dopoguerra, perché la maledizione di questo Paese è stata di non aver mai potuto conoscere un ciclo di azione riformista.

Un ciclo che lo cambiasse radicalmente, che cambiasse la scuola, cambiasse lo Stato sociale, cambiasse il modo di essere, persino il senso comune: come accade in altri paesi quando si compiono dei cicli politici. Da noi, anche quando i cicli sono durati a lungo – il ciclo di Berlusconi dura da tantissimo tempo, sono quindici anni di ininterrotta occupazione del potere, al governo o all’opposizione – le cose non cambiano. La logica è sempre quella del Gattopardo, “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

E invece l’Italia ha bisogno, mai come oggi, di cambiamento, di un cambiamento profondo e radicale.

Le nostre identità, le nostre culture, vorrei persino dire le nostre biografie, sono messe al servizio dell’idea che in Italia prima o poi possa accadere quello che sta accadendo negli Stati Uniti, quello che è successo con Tony Blair, quello che è successo con Willy Brandt, quello che è successo con tante esperienze di governo riformista: non cambiare il governo, cambiare l’Italia. Rompere con l’idea di un Paese in qualche misura accovacciato, di questo Paese che è un Paese in cui alla fine non cambia niente, in cui da sessant’anni ci sono gli stessi difetti.

Qualche giorno fa guardavo un programma televisivo d’epoca, del 1959: persone che lamentavano l’abitudine di farsi raccomandare. Sono passati cinquant’anni ed è esattamente la stessa cosa: non il merito, non i diritti, ma raccomandazioni e privilegi.

Qui sta per me la vocazione maggioritaria del Partito democratico, che è la cosa alla quale tengo di più. Perché vedete, noi possiamo anche pensare di poter fare delle operazioni, ci tornerò tra un attimo, di assemblaggio; ma la vera sfida per noi, la vera e più affascinante sfida per noi, è conquistare la maggioranza del consenso.

Guardavamo con Dario (Franceschini), ieri, i dati della Sardegna. In Sardegna la differenza è aumentata. Ma anche quando abbiamo vinto le elezioni politiche, noi siamo sempre stati sotto, dal 1994 non abbiamo mai avuto la maggioranza del voto degli italiani. È quello a cui dobbiamo puntare, naturalmente non solo come Partito democratico, ma come riformismo sì, perché se questo Paese non avrà un governo riformista non cambierà.

È questa ispirazione il senso della sfida del Partito democratico. La vocazione maggioritaria significa non dare per scontato che l’unico compito del Partito democratico, di un grande partito riformista, sia quello di fare un po’ “da vinavil”, per cercare di tenere incollato tutto ciò che è molto diverso da sé, ma che solo se è incollato – magari provvisoriamente – consente di affrontare le sfide.

No, il progetto del Partito democratico è che bisogna cambiare i rapporti di forza nella società. E’ nella società che bisogna diventare maggioranza, con il riformismo, esattamente come è stato possibile in America, in un paese che per otto anni è stato guidato da maggioranza repubblicana.

Siamo tutti rimasti colpiti dal successo della destra. C’è qualcosa di profondo nella società italiana, qualcosa che anche a me diventa difficile capire. Lo dico sinceramente. Mi espongo a tutte le contumelie dei Cicchitto e dei Gasparri, ma per come sono fatto, per la mia storia, per la mia cultura, diventa difficile capire che nel mio Paese il presidente del Consiglio possa andare in un luogo a fare campagna elettorale e dire cose come quelle che ha detto a proposito della vicenda di Eluana.

Che possa arrivare a dire quella frase, che a me ha fatto accapponare la pelle e per la quale in quei giorni ho preso carta e penna e scritto un articolo. Che possa arrivare a dire, come ha detto: “l’impressione è che ci si voglia togliere di mezzo una scomodità”.

Io penso che se in un altro Paese un Presidente del Consiglio avesse detto questo e tutto il resto, l’opinione pubblica avrebbe reagito. Da noi, invece, Berlusconi ha vinto, diciamoci la verità, una battaglia di “egemonia” nella società, all’interno della società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti, perché ha avuto i mezzi e la possibilità di cambiare – dal mio punto di vista di stravolgere – il sistema dei valori e persino le tradizioni migliori di questo Paese, che sono tradizioni di solidarietà, che sono il senso di un dinamismo, di una capacità di intraprendere, di una voglia di lavorare, di un’onestà di fondo.

Berlusconi nel corso di questi anni ha stravolto questi valori e ha costruito un sistema di disvalori, contro il quale bisogna combattere, anche avendo il coraggio di mettere la vela quando il vento è più basso sapendo che prima o poi se la vela è messa nella giusta posizione arriverà il vento per andare e fare la marcia giusta.

Bisogna, in questo senso, fare un lavoro profondo nella società, in ogni suo pezzo. Uso un’espressione: “casa matta per casa matta”. Bisogna andare a cercare di contrastare il senso di una trasformazione del nostro Paese che vediamo nei fenomeni di questi giorni, nei fenomeni di razzismo e di xenofobia, nel fatto che il nostro Presidente del Consiglio di fronte alle violenza delle donne dice che bisogna mettere un militare appresso “ad ogni bella donna”. Tutte cose che sarebbe inimmaginabili in altri paesi, ma che in questo Paese appaiono normali, come appare normale che si possano fare promesse che poi non si realizzano.

E guardate, questo non è antiberlusconismo. Antiberlusconismo è quando ci si limita a questo, ma noi per fortuna non abbiamo fatto e non facciamo solo questo. Questa è la critica, che in una democrazia è un valore. E’ la dialettica tra maggioranza e opposizione.

Ieri tra le tante telefonate che avuto, una è stata di un esponente del centrodestra, di una persona perbene, onesta come ce ne sono tante in quello schieramento, che mi ha detto: a me dispiace quello che è accaduto, perché in una democrazia è importante che ci sia un bilanciamento fra maggioranza e opposizione. E’ esattamente quello che Berlusconi non sopporta, non tollera. Basta vedere i suoi giornali, quello che gronda dai giornali della destra. E’ il desiderio che non esista nessuno che la pensa diversamente da loro. E invece per fortuna esistono tanti e tanti milioni di persone che la pensano diversamente da loro.

Oggi l’Italia è più povera e più chiusa, e ripeto: c’è un problema di sistema di valori.

C’è una bellissima frase contenuta nel carteggio tra Giovanni e Alberto Pirelli, in cui l’uno parlando a l’altro diceva: “viviamo in una società in cui si conosce il prezzo ma non il valore delle cose”. E’ questa la società che questo spirito del tempo in qualche modo ci ha imposto. E guardate, la crisi, la spaventosa crisi economica e sociale che sta avvenendo nel nostro Paese come tutti i paesi, chiederebbe e chiede di mettere in campo un grande progetto riformista, che abbia, come posso dire, la pazienza e la fiducia di investire su se stesso.

Un progetto che nel corso di questi mesi di lavoro del Pd abbiamo cercato di mettere in campo. Cito le tre cose sulle quali credo si è concentrato il nostro sforzo.

Primo: un progetto di semplificazione della vita politica e istituzionale del Paese. Venivamo da un tempo di frammentazione esasperata, tipica di altri sistemi politici. Avevamo bisogno di passare ad un sistema più compatto, più coeso, meno frammentato e diviso. In questo senso penso che nella storia della vita politica italiana la nostra scelta, dopo l’esperienza del governo dell’Unione, di andare “liberi”, abbia prodotto un fondamentale e inedito processo di semplificazione. Un processo che non è figlio di un’esigenza di riduzione delle diversità, ma esattamente il contrario: è l’idea di una democrazia che decida, è l’idea di sfuggire alla morsa dello scambio democrazia-decisione con l’idea di una democrazia che decida.

Secondo: l’innovazione programmatica. Io penso che da questo punto di vista abbiamo fatto un grandissimo sforzo. Se si mette insieme tutto il lavoro di innovazione programmatica che dal Lingotto in poi è andato avanti con l’attività del governo ombra e con quello che abbiamo fatto noi, oggi sulla stragrande maggioranza dei temi il Pd dispone – ecco la differenza dall’antiberlusconismo – di un bagaglio di proposte alternative e innovative delle quali in altri momenti l’opposizione non ha disposto.

Terzo: l’innovazione della forma partito. Quello che speravo che si potesse realizzare era un partito nuovo e aperto, un partito nel quale la vita democratica fosse una ricchezza, una bellezza. Io lo so che ci sono tante perplessità sulle primarie, e però guardate: è uno strumento importante. Quando vanno a votare in una città decine di migliaia di persone per scegliere il candidato di un schieramento di un partito, lì c’è un pezzo di democrazia. E per quanto sia complesso, faticoso e talvolta contraddittorio, e nonostante i risultati possano piacere o non piacere a questo e a quello, per quello che noi siamo è sempre meglio questa modalità della decisone autoritaria di uno solo, come succede nella destra, che indica chi deve essere il candidato in questa e in quella città.

Io il Pd in certi momenti l’ho visto, l’ho visto al Lingotto, l’ho visto a Spello nel volto dei ragazzi che poi avrebbero costituito il nostro movimento di generazione democratica attraverso delle primarie. L’ho visto alle elezioni, l’ho visto nella campagna elettorale più bella che mi sia capitato di fare e che ha raccolto, in un momento in cui c’era una depressione molto forte delle nostre forze, entusiasmo e motivazione. L’ho visto alla scuola che abbiamo fatto a Cortona, che è stata una esperienza bellissima in cui centinaia e centinaia di ragazzi hanno conosciuto e vissuto i temi del dibattito democratico e l’ho ovviamente visto il 25 ottobre al Circo Massimo. E l’ho ancora visto in questa settimana, a cominciare dalla manifestazione sulla Costituzione, che è un riferimento alle radici dell’identità del Pd, perché il Pd non nasce dal nulla, nasce da una storia, e questa storia è la storia del solidarismo cattolico, dell’impegno per i diritti della sinistra, è la storia del pensiero laico e democratico, è la storia dell’azionismo, è la storia dell’ambientalismo, delle culture della differenza femminista.

Il Pd è questo, e se posso dire una cosa, diciamo in conclusione della mia esperienza, è: abituiamoci all’idea che un grande partito è un luogo di diversità. Non vi preoccupate, non vi spaventate, non chiedete a chi mi succederà, “ma su questo tema il Pd ha avuto tre deputati che hanno votato diversamente”. La mia risposta, quella che avevo in mente e che non potevo dare è: per fortuna sì. Per fortuna sì, per fortuna che il Pd non è una caserma, per fortuna che è un luogo in cui ciascuno può avere una sua identità dentro un’ispirazione unitaria che rispetta su taluni punti una libertà di coscienza.

I partiti moderni sono questo. Non esistono i partiti di un tempo. Lo dico perché molti di noi hanno l’imprinting della politica degli anni ’70. I partiti moderni sono questo in tutto il mondo occidentale, sono il legame tra la compattezza e l’articolazione e naturalmente questo legame ha un suo equilibrio.

Però io devo dire di non avercela fatta. Ed è responsabilità mia. La prendo sulle mie spalle tutta per intero. E’ la responsabilità di non avercela fatta a fare il partito non solo che sognavo io, ma che sognavano i tre milioni e mezzo di persone che hanno votato le primarie. Non c’è l’ho fatta e chiedo scusa per non avercela fatta. Sento di non aver corrisposto, da questo punto di vista, alla spinta di innovazione che c’era. Sento di non averlo fatto a sufficienza per un riflesso che io considero un valore. Può darsi che mi sbagli, ma il mio riflesso è naturalmente, e qui conta la formazione e l’educazione di tutti noi, quello di tentare sempre di tenere uniti.

Oggi Carlo Azeglio Ciampi, in un’intervista dalla quale io lo ringrazio moltissimo, riferendosi proprio alla comune nostra esperienza di governo dice che una delle mie caratteristiche è questa, e cioè che io cerco sempre di tenere uniti. Da questo punto di vista, però, credo che questa spinta abbia, debba avere, come suo contrappeso, la solidarietà.

Lo dico per il futuro, non per il passato, perché penso che possiate misurare, e lo sentirete nelle parole che ancora dopo dirò, la mia serenità – se permettete, naturalmente, insieme ad pizzico di commozione – una assoluta intima serenità.

Lo dico dunque per chi mi succederà: in questo partito, nel centrosinistra, c’è bisogno di più solidarietà.

C’è bisogno che tutti ci si senta di più una squadra. C’è bisogno che ci sia quella idea comune, quella partecipazione comune ad un disegno – naturalmente se questo non è riuscito la responsabilità in primo luogo è mia e di chi deve dirigere, saper assicurare e far affascinare tutti sul viaggio che si fa – condiviso e solidale. Noi dobbiamo mettere in campo questo.

Quando io ero in Campidoglio e mi fu chiesto – da Piero Fassino, e lo ringrazio ancora perché fu uno dei tanti atti di generosità della sua vita politica e voglio cogliere questa occasione per dirlo e per ringraziarlo di tutto quello che ha fatto e fa – di partecipare alle elezioni primarie, la situazione era quella che tutti noi ricordiamo.

A partire da lì, nel corso del tempo abbiamo messo in campo una forza nuova. Naturalmente adesso è un momento molto difficile e bisogna vederlo in tutta la sua natura. E penso che il passaggio che si farà nel corso dei prossimi giorni si dovrà accompagnare anche ad un avanzamento di forze e di energie nuove generazionalmente, anche di esperienze legate al territorio, esperienze di amministratori. Dovremmo fare un partito sempre più capace di raccogliere la sua ricchezza. Un partito capace di non chiedere più a nessuno da dove viene, ma solamente dove va.

Questo è lo sforzo e il lavoro che noi dobbiamo fare tutti insieme per costruire quell’identità democratica che la nostra gente già ha. Perché per me il ricordo più bello che porterò con come sarà la manifestazione del 25 ottobre, quando salendo sul quel palchetto in mezzo alla gente vidi quella marea di bandiere del Partito democratico. Non c’era nessuna bandiera del passato, c’erano solo bandiere del presente. Voleva dire che in un anno, in dodici mesi, si è costruita tra di noi la consapevolezza – tra la nostra gente, meno tra i gruppi dirigenti – che l’identità democratica non è affatto una leggerezza culturale.

Perché vedete, anche qui io sento, alcune volte, certi rimpianti di momenti nei quali, diciamoci la verità, certe grandi apparenti solidità culturali non ci hanno consentito di vedere temi come quello della sicurezza, non ci hanno consentito di vedere temi come quello della piccola e media impresa e la necessità di una politica di crescita, non ci hanno consentito di vedere l’emergere di grandi rivoluzioni come quella ambientale, e potrei continuare.

La solidità di un’affermazione culturale non è nella sua scolastica enunciazione, è nella sua capacità di leggere la società, di interpretarne i cambiamenti, di assecondarla, di parlare il suo linguaggio, di sentire il suo cuore.

Noi dobbiamo tutti quanti insieme superare personalismi, divisioni, protagonismi. Lo sforzo che io ho cercato di fare e che spero possa essere portato a compimento è anche di passare, fatemi usare questa espressione in questo momento, da una sinistra salottiera, giustizialista, pessimista e sostanzialmente conservatrice ad un centrosinistra legato al valore della legalità come valore assoluto in ogni campo della vita pubblica, ad un centrosinistra non conservatore ma innovatore che avesse la voglia di portare il suo sistema di valori dentro la società, ad una sinistra che non fosse salottiera ma recuperasse il giusto del rapporto con la vita reale delle persone.

Vedete, quando io in campagna elettorale andavo a pranzo a casa di una famiglia di operai di Piombino o di pescatori di Trapani non lo facevo solamente per piacere, lo facevo perché cercavo di trasmettere questa idea: stare fuori dalle stanze e dentro la vita reale delle persone, dentro il rapporto con i bisogni e le ansie della gente.

Fatemi citare solo una persona – perché tra i tanti luoghi comuni nei quali io sono incappato ci sono le citazioni delle persone, soprattutto di persone che non ci sono più, e non ci sarebbe bisogno di ricorrere a Freud per spiegarne la ragione. L’unica citazione che voglio fare è di una persona per la quale ho provato un vero e proprio amore intellettuale, Vittorio Foa, per la sua voglia di conoscere e il suo ottimismo e al tempo stesso per le sue radici solide. Era una pianta sempre verde, una pianta con delle radici grandi e al tempo stesso con fogliame sempre allegro e accogliente. Ho raccontato in un’altra circostanza la mia ultima visita a Formia da lui, quando mostrandomi un testo che aveva lasciato sul tavolo mi ha detto “vedrai, è molto pessimista”. E allora, pur non vedendo più – Vittorio era un po’ come Omero, scriveva e non leggeva, Sesa gli raccontava tutte le cose – ha sentito, ha avvertito la mia sorpresa sul fatto che lui potesse esprimere qualcosa di pessimista, e mi ha detto: “no, che hai capito, è pessimista sul passato e ottimista sul futuro”.

Ecco, è questo sguardo sul futuro della società che io penso dobbiamo portare con noi. Questo ottimismo, questa voglia di uscirne, questo rifiuto dei luoghi comuni.

E però io non sono riuscito a fare tutto questo, e allora, come nel mio sport preferito, come si fa a basket quando si fa un fallo e si alza la mano assumendosi la propria responsabilità, io sono qui per assumermi tutta intera la mia responsabilità.

Ieri abbiamo discusso e ringrazio veramente con affetto tutti i membri del coordinamento per le parole che hanno pronunciato per cercare di convincermi a non proseguire con la mia intenzione. Sono però convinto che questa scelta, per me dolorosa, sia la scelta giusta anche per mettere a riparo il progetto del Partito democratico da ulteriori tensioni, da ulteriori logoramenti. Perché obiettivamente era evidente, ad un certo punto, nelle ultime settimane, che in qualche misura si dovesse aprire una pagina nuova per poter realizzare un nuovo clima di solidarietà, di dialogo e di convergenza.

Però l’ultima cosa politica che voglio dire è questa: non chiedete ha chi verrà eletto dopo di me, non chiedetegli con l’orologio in mano, di ottenere dei risultati.

Un grande progetto politico – e per la ragione dalla quale ho iniziato considero quello del Partito democratico il più grande progetto politico della storia di questo Paese, perché è l’unico che può assicurare all’Italia una sfida riformista, perché ha avuto il 34% dei consensi, uno dei livelli elettorali più alti di tutta l’Europa per ciò che riguarda il centrosinistra – non è un progetto che si consuma in diciotto mesi. Se è un grande progetto riguarda gli anni.

Vedete, Lula prima di essere eletto presidente del Brasile ci ha provato tre volte e Francois Mitterrand ci ha provato due volte e così dall’altra parte Chirac. Papandreu, che ha perso le scorse elezioni, si sta preparando per cercare di vincere le elezioni successive. Perché c’è dietro un grande progetto e c’è la convinzione da parte di tutti che un grande progetto può incontrare, specie in un momento come questo, delle difficoltà.

Si sono fatte le elezioni in Assia, e il partito socialdemocratico tedesco ha preso un bagno disumano. Si sono fatte le elezioni amministrative in Inghilterra e i laburisti hanno perso, ma non si è dimesso nessuno. Da noi invece è giusto che io faccia quello che sto facendo. Ma nel farlo sento il dovere morale di dire: liberiamoci da questa logica che ci ha portato nel corso di dieci anni a consumare sei o sette leader del centrosinistra. Mentre Berlusconi è rimasto lì, che vincesse o perdesse le elezioni, noi abbiamo cambiato sei o sette leadership, trasmettendo un’immagine di fragilità e di precarietà che ci ha fatto male.

A chi verrà eletto dopo di me venga concesso ciò che io non mi sono guadagnato sul campo, e cioè la possibilità che sia un tempo lungo, quello in cui si misura il progetto, perché un progetto grande è un progetto che deve convincere milioni di esseri umani, la loro convinzione e i loro orientamenti politici. Sia consentito che questo avvenga.

Ho letto sui giornali che Barack Obama è stato impegnato a fare un viaggio dell’America per fronteggiare “la delusione” dei suoi elettori. Si è insediato il 20 gennaio, ma non mi ha stupito, perché noi siamo fatti così, abbiamo un meraviglioso senso critico, un elogio del dubbio che ci accompagna, ed è parte della nostra forza culturale, persino umana. Però è anche vero quel che un mio amico mi disse una volta, che la differenza tra destra e sinistra in fondo è questa: se ad una assemblea di destra si attacca il centrosinistra vengono giù gli applausi, e se a un’assemblea di centrosinistra si attacca il centrosinistra vengono giù gli applausi.

Ecco, è esattamente questa la cosa dalla quale dobbiamo liberarci. E dobbiamo recuperare anche quell’orgoglio, quella forza, quella determinazione e quel guardarsi negli occhi e riconoscersi e sentire che si vivono le stesse ambizioni, le stesse emozioni.

Io penso e veramente spero che questa mia decisione possa aiutare, spero anche per le motivazioni che l’accompagnano, l’affermazione di un’idea della politica di questa natura. Per tutte le cose che bisognerà fare in questo Paese, per la riforma degli ammortizzatori sociali, perché probabilmente bisognerà rivedere il sistema pensionistico, perché bisognerà fare quella grande rivoluzione ambientale alla quale Ermete Realacci ha lavorato con Roberto Della Seta e con tanti altri nel corso di questi anni. Per tutte queste ragioni, non c’è bisogno e non si può mettere insieme tutto il contrario di tutto, c’è bisogno di credere nella possibilità che sia il messaggio dell’innovazione riformista, il suo sistema di valori, a prevalere.

Ancora una cosa: mi sono sentito spesso dire in queste settimane “ma devi fare l’opposizione più dura”. Mi sono ricordato che la stessa cosa si diceva a Enrico Berlinguer. Gli veniva sempre detta la stessa cosa, “devi essere più duro”, un po’ per la gentilezza dei suoi modi e per la sua caratteristica umana e persino per il suo sguardo, ma un po’ perché anche in quel tempo chi era all’opposizione non poteva farlo per ragioni storiche, però cercava di coltivare quella ambizione di fare l’opposizione preparando l’alternativa. Si può fare l’opposizione urlando, ma guardate: non c’è opposizione che chi sta al potere preferisce che l’opposizione degli urlatori. L’opposizione che costituisce un pericolo per chi governa, soprattutto se chi governa ha il segno di questa destra, è l’opposizione riformista. E guardate che sempre, nella storia dell’Occidente, sono stati i riformisti il bersaglio della conservazione, da tutti i punti di vista; non quelli che fanno le parole, ma quelli che possono cambiare il corso delle cose. Per questo l’opposizione che noi dobbiamo fare deve essere un’opposizione molto dura, come l’abbiamo fatta ottenendo dei risultati importanti, nei confronti di Berlusconi e della sua visione della società italiana, ma al tempo stesso deve essere un’opposizione dell’alternativa, e deve essere un’opposizione che si sforza, quando è possibile di cambiare le regole del gioco. Perché cambiare le regole del gioco non è fare un favore a qualcuno, è fare una democrazia che decide, e io ho cercato fin dall’inizio di dire che il bello di una democrazia è quando coesiste opposizione e convergenza sulle regole. Le due cose non si confondono. Non ci sono zone ambigue, oscure, nelle quali queste due cose si possano in qualche misura annacquare.

Noi dobbiamo unire il Paese, il Pd dovrà unire il Paese, dovrà unirlo tra le forze sociali. Proprio qui, sabato scorso, abbiamo detto alle forze sociali tutte, sindacati e piccoli e medi imprenditori, “perché non protestate insieme”. Mi rendo conto che detta vent’anni fa questa cosa sarebbe sembrata marziana, ma in questo momento c’è la possibilità di dire a tutto il mondo del lavoro, in un Paese che sta in una depressione spaventosa nella totale assenza di iniziativa del governo: unisciti.

Unire il Paese. Quando la destra lo vuole dividere unire il Paese, unirlo tra le forze sociali, tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, facendo una società che guardi di più ai giovani, dai temi contrattuali alla grande lotta contro il precariato. Verrà un tempo e verranno spero anche le condizioni nella società italiana per quali questo possa accadere.

Per quanto mi riguarda, e concludo, il Pd è stato una speranza e il segno politico della mia vita. L’ho perseguito, questo credo di poterlo dire, con assoluta coerenza e persino con “tetragona” coerenza. Spero, nella storia della mia famiglia politica, di aver dato un contributo su temi come il bipolarismo, come l’idea del centrosinistra, come una certa lettura degli Stati Uniti, sull’informazione, sul modo “caldo” di interpretare la politica, sull’idea che non ci debba essere una divisione tra la concretezza dei gesti e l’ispirazione ideale.

Ho sempre avuto un’idea della politica, e lo dico nel momento in cui si conclude questa mia esperienza, come missione civile. Ho sempre coltivato l’idea che il potere fosse un mezzo e non un fine.

Lascio, adesso, ma lascio con assoluta serenità, e senza sbattere la porta, cosa molto difficile quando finisce un’esperienza. Al contrario io cercherò, in una posizione assolutamente discreta, di dare, come naturalmente mi viene di fare, una mano a questo progetto. Spero che questa scelta possa tutelare chi avrà la responsabilità di guidare il partito dalla sindrome di logoramento che c’è stata nelle settimane passate. Lo faccio, ripeto, con grande serenità.

Sinceramente, e chi lavora con me lo sa, mi sono sempre chiesto in tutti questi anni come sarebbe stato il giorno in cui avrei smesso, perché ho sempre pensato che non avrei fatto politica, nel senso di responsabilità e potere, per tutta la vita. Mi ero fatto un film quando ero Sindaco: era di concludere quella esperienza e poi di fare un’esperienza che fa molto sorridere. Vedo che i giornali si divertono molto a dire: “Quando va in Africa?”. Come a dire, “stupidaggini”. E invece per me quello è il luogo dove tutto ciò in cui ho creduto per tutta la vita, e cioè la lotta contro le disuguaglianze e le ingiustizie, si materializza nel modo più brutale. Un luogo naturale per chi ha una coscienza civile. Ma, al di là di questo, mi sono sempre chiesto come sarebbe stato, e adesso avrò la possibilità di scoprirlo e di verificarlo.

Io ho solo da dire grazie, perché ho avuto una vita assolutamente fantastica, ho avuto la possibilità di fare esperienze umane e politiche eccezionali, da direttore de l’Unità a Ministro, a Vicepresidente del Consiglio, e soprattutto a Sindaco di Roma, un’esperienza che ha cambiato la mia vita e ha anche cambiato, spero in meglio, la mia relazione con il potere e la sua gestione. La cosa che mi fa essere sereno è che quando camminerò per la mia città, avendo il tempo per poterlo fare, e guardando la Galleria Borghese, o gli asili nido aperti, o Villa Torlonia ristrutturata, o l’Auditorium, o le case delle famiglie dei bambini ammalati, avrò la sensazione di aver passato la mia vita non a fare discorsi o interviste, ma di aver passato un tempo importante, il più bello della mia vita, a fare cose per gli altri. La politica è condivisione e risposta.

Forse io sono portato ad essere, lo dico ed è un altro limite, più uomo delle istituzioni, uomo di governo, che uomo di partito nel senso stretto del termine. Credo che chi ha lavorato con me lo sappia come pochi.

Adesso si apre per me un tempo nuovo, anche di rapporto con il tempo. Sarà una riscoperta di quella vertigine che può dare poter riscoprire il proprio tempo. Da trent’anni non ho avuto questa facoltà, altri lo gestivano per me, adesso lo recupero.

Devo dire dei grazie. Il primo grazie lo devo dire al Presidente Napolitano, per l’affetto che mi ha voluto dimostrare anche in queste ore. Voglio dire grazie anche al Presidente Ciampi e al Presidente Scalfaro. Così come ho parlato della Galleria Borghese, considero l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi una delle cose politicamente più importanti che ho fatto nella mia vita, contribuendo alla realizzazione di quell’obiettivo. Voglio ringraziare veramente con molto calore Dario Franceschini, voglio ringraziare Dario per la lealtà, la solidarietà. Guardate, sono virtù rare in un uomo politico. E se lo dico in questo momento è perché è così. Sono virtù rare in un uomo politico: la lealtà, la capacità di dirti quando si è d’accordo e quando non si è d’accordo, ma dentro un sottofondo di lealtà, per cui si sentono le stesse cose, si vivono le stesse cose, si hanno le stesse ambizioni, e se uno sbaglia l’altro sbaglia, se uno vince l’altro vince. Questo ho trovato in Dario e gli sono molto grato. Così come sono grato a Goffredo e a tanti che hanno lavorato con me, non faccio tutti i nomi perché qualcuno lo perderei per strada. Un ringraziamento va ai due capigruppo, ad Antonello e ad Anna, ad Antonello Soro e ad Anna Finocchiaro. Stamattina ho detto loro che è stato veramente un piacere lavorare con loro e assieme a loro gestire tante emergenze e tanti momenti difficili. Voglio ringraziare anche persone dell’altro schieramento politico, che mi hanno telefonato ieri ma anche al di là di questo. Il presidente Fini in primo luogo, il presidente Schifani, Gianni Letta, che sono stati interlocutori assolutamente civili e correttissimi nel corso di questi anni.

Voglio ringraziare tutti i volontari che hanno lavorato con me in tutte le diverse sequenze della mia vita politica e che hanno continuato sino a ieri, molti dei quali hanno provato a dissuadermi, e spero che mi capiranno. Spero che capiranno anche se tra di loro cito Roberto Cocco, con il quale ormai praticamente vivo da vent’anni. Mi capiranno se non faccio il nome di nessuno, a cominciare da Walter Verini che meriterebbe che fosse fatto il suo nome, ma non lo diciamo altrimenti si monta la testa. Permettetemi di fare il nome di persone che nessuno conosce, che si chiamano Paolo, Marco, Stefano, Luciano, Valerio, Luigi, che sono le persone della mia scorta. Ormai siamo insieme dal 1996. Io oggi ho firmato una lettera al Prefetto della Repubblica per chiedergli di togliermi la scorta, perché non c’è nessun motivo per cui un uomo politico che smette di fare un lavoro di responsabilità continui ad avere una scorta. Io vedo tanta gente che ha avuto responsabilità politiche in passato che gira con scorte di tutte le nature. Mi dispiacerà molto, perché da tredici anni tutti i giorni lavoriamo assieme. E’ una delle cose che mi dispiace, come mi dispiacerà non lavorare con Walter e Maurizio che sono stati gli autisti in questi anni, e voglio citare anche Silvia, Paola, Melania, e Simonetta prima, per il contributo che mi hanno dato e per fatto con me un po’ da mamme.

Infine voglio fare un ringraziamento ai giornalisti. Di solito gli uomini politici hanno nei confronti della stampa due atteggiamenti: pensano di usarla e vengono usati. Io rispetto moltissimo il lavoro dei giornalisti, credo che ciascuno debba essere guidato, nel lavoro del giornalista come in quello del politico, solo dall'etica. Non misurare mai il giornalista se ha parlato bene o male di te: può parlare male e farlo onestamente; può parlare bene e non farlo onestamente. L'importante è che scriva quello che realmente ha visto, non quello che gli arriva da un buco della serratura, che spesso è in buco nel quel scatta il primo meccanismo: cioè l'uomo politico che pensa di utilizzare i giornali. Perché quello che vale per gli uomini politici vale anche per i giornalisti: anche loro pensano di fregare gli uomini politici che invece li fregano perché gli danno una notizia non vera facendogliela passare come un grande scoop. Io penso che il lavoro dei giornalisti vada rispettato, da tutti, penso che ci sia una reciproca autonomia che è un valore della democrazia: l'autonomia del giornalismo e della politica.

Ora, il lavoro del Pd continua. Si è deciso di convocare per la fine di questa settimana l'Assemblea Nazionale del Partito Democratico, ho chiesto a Dario Franceschini di assumere la responsabilità che gli deriva non solo dal nostro lavoro comune di questi diciotto mesi, ma anche dallo statuto. E penso e spero che si possa rapidamente dare certezze e solidità. E fare in modo che si possa svolgere, ma senza concitazione né riduzione del tempo necessario, una grande discussione politica, perché è ciò di cui ha bisogno questo partito. Una discussione libera, aperta, sincera, la meno imbrigliata. In cui ciascuno dica le proprie opinioni.

Mi auguro che adesso possa esserci una soluzione all'Assemblea Costituente e poi ci possano essere mesi per vincere le elezioni amministrative e quelle europee e si possa fare un congresso vero, di discussione, di costruzione del senso comune e dell'identità collettiva di un partito. Cercherò per la mia parte, con la discrezione totale, di aiutare gli altri.

Quello che posso garantire a chi verrà dopo di me, e che vale come un principio antico, è di non fare agli altri... quello che è stato fatto a te.

Io non lo farò. Il Pd è e resta la ragione politica della mia vita. Ho fatto il possibile, veramente ce l'ho messa tutta, c'ho messo anche il fisico, ma non è bastato e di questo veramente mi scuso e mi assumo ovviamente tutte le responsabilità.

Una sola cosa: non bisogna tornare indietro, non venga mai in nessun momento la tentazione di pensare che c'è uno ieri migliore dell'oggi. Oggi con tutte le sue traversie – ma come recitano parole famose “parevano traversie ed erano opportunità” – ci sono le condizioni perché questo partito possa finalmente realizzare quel sogno, e cioè una maggioranza riformista in questo Paese. Non una maggioranza del Pd, ma una riformista. Se torniamo indietro questo sogno svanisce. Bisogna continuare, continuare ciò che è giusto.

Al gruppo dirigente, a tutti, a noi, io voglio solamente dire: amatelo di più questo partito; amatelo più che è possibile, annaffiate questa pianta; state uniti per cercare di farla più forte.

E per quanto mi riguarda l'ultimo grazie va agli elettori delle primarie che mi hanno dato la loro fiducia, ai dodici milioni di italiani che hanno votato per noi alle elezioni, alle migliaia di persone che in queste ore hanno mandato dei fax e scritto e-mail.
Tutto quello che ho cercato di fare nella mia vita l’ho fatto pensando a questo gigantesco e meraviglioso tesoro, che non è solo per noi ma per la democrazia italiana, il popolo che crede nei valori, nei principi e nelle ragioni della democrazia che sono crescita, giustizia sociale e diritti. Sono qualcosa di molto importante, senza le quali il Paese sarà più povero.

Ma il Partito democratico crescerà, vincerà la sua sfida e comincerà finalmente, per l'Italia, quella stagione che il nostro Paese non ha mai conosciuto, la stagione di un riformismo che si fa maggioranza. Grazie.

Walter Veltroni

martedì 3 febbraio 2009

WALTER CI RINGRAZIA STIMOLANDOCI AD ANDARE AVANTI....................

Cari amici,
voglio farvi i miei auguri per un sereno 2009 ringraziandovi per l'entusiasmo e l'impegno che mettete ogni giorno nel far vivere i nostri circoli.

Siamo una grande forza riformista, nata da un anno in soli 12 mesi abbiamo già affrontato le elezioni conquistando il consenso di oltre un terzo degliitaliani. L'anno che sta per arrivare sarà impegnativo per tutti: penso allacampagna per il tesseramento, alla conferenza programmatica e alle elezioni amministrative ed europee. Dando vita al Partito Democratico, abbiamo alimentato grandi aspettative, abbiamo suscitato una speranza nuova.
Ora, abbiamo il dovere di rispettare l'impegno assunto con chi ha votato per noi, con chi ci ha sostenuto anche partecipando alla grande manifestazione del 25 ottobre al Circo Massimo, unevento che non sarebbe stato possibile senza di voi.
Lo so perché ogni volta che visito un circolo trovo una piccola comunità cheha preso coscienza del nostro ruolo nella vita degli italiani. È nei circoli che si capisce come la forza del Partito Democratico è in tutte quellepersone che si impegnano nelle ore libere del giorno perché credono nella politica, nella sua capacità di cambiare le cose, nella forza della partecipazione dei cittadini.Di questo c'è bisogno, innanzitutto per il Paese, che sta attraversando una crisi sempre più grave, di fronte alla quale il governo si mostra sempre più inadeguato.
Ci sarà molto da fare nel corso del nuovo anno, e lo faremo assieme.
Ancora auguri.
Walter Veltroni